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La Pietra del Sollievo

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Si fanno troppe operazioni per ernia al disco

Lo dice la società italiana di chirurgia vertebrale:
spesso si può guarire anche senza intervento

MILANO - Circa l'80% delle ernie del disco, una delle principali cause di mal di schiena cronico, guarisce spontaneamente in circa tre mesi, ma per aiutare la natura a fare il suo corso è importante mettere a punto una strategia multidisciplinare per controllare il dolore. Lo hanno ribadito gli esperti durante il recente congresso della Società italiana di chirurgia vertebrale con l'obiettivo di ridurre gli interventi chirurgici, spesso inutili, per ernia al disco lombare. «Il mal di schiena è la seconda causa più frequente per cui ci si rivolge al medico di famiglia e la prima causa di assenza dal lavoro fino ai 45 anni» premette Giancarlo Guizzardi, neurochirurgo dell’ospedale universitario Careggi, di Firenze. «Le cause del mal di schiena sono diverse, ma circa il 30% delle forme acute di lombosciatalgia (la "sciatica"), è dovuta a un’ernia discale». In genere prima che compaia un’ernia vera e propria, però, si ha una protrusione discale. «Con l'età la sostanza gelatinosa ( nucleo polposo ) che svolge funzione ammortizzante tra i dischi intervertebrali tende a disidratarsi provocando un aumento della pressione sull'anello fibroso che lo circonda. In pratica, questo "cuore" gelatinoso deborda, dando luogo a una protrusione con l'inizio del mal di schiena – spiega Guizzardi -. Questa è una situazione molto diffusa e non pericolosa che non richiede trattamento chirurgico. Tuttavia per evitare che la protrusione degeneri e porti alla formazione di un’ernia discale espulsa, in seguito alla rottura dell'anello contenitivo con fuoriuscita del gel ammortizzante, è importante adottare un’adeguata strategia terapeutica, dopo aver individuato eventuali fattori predisponenti».

In età giovanile le ragioni più frequenti di protrusioni sono sforzi eccessivi o movimenti sbagliati ripetuti quotidianamente (come sollevare pesi senza piegare le gambe). Con l'avanzare dell'età, invece, la predisposizione genetica può sommarsi a traumi, posture sbagliate, sedentarietà delle attività lavorative. «Per evitare che la protrusione degeneri in ernia sono utili fisioterapia e attività fisica e, in caso di mal di schiena acuto, è indicato l’uso di farmaci antidolorifici e antinfiammatori – puntualizza l’esperto -. Ma anche quando è ormai presente un’ernia, il primo livello di intervento non è mai chirurgico e secondo le più recenti linee guida non bisogna mai operare prima che siano trascorsi almeno tre mesi dall’esordio dei sintomi. Questo lasso di tempo va fatto passare perché l’ernia può regredire spontaneamente grazie a un processo di disidratazione. Con un percorso terapeutico multidisciplinare più appropriato il numero degli interventi chirurgici alla colonna vertebrale potrebbe essere ridotto anche della metà». Anche in caso di ernia del disco, come per le protusioni, bisogna agire su più fronti. «Gli strumenti a disposizione sono la terapia farmacologica per controllare il dolore (dal paracetamolo agli oppioidi), la fisioterapia (evitando l’immobilità che peggiora il dolore) fino ad arrivare all’assistenza psicologica per aiutare i pazienti a superare la fase critica».

Quali sono i casi in cui può invece aver senso il ricorso al bisturi? «I candidati ideali all’intervento sono coloro che, nell’arco di un breve periodo di tempo (in genere un anno) hanno almeno tre o quattro episodi di sciatica che durano più di una settimana ognuno e non rispondono alle cure conservative. Inoltre, si opera anche quando, oltre al dolore, sono presenti deficit neurologici importanti, come per esempio debolezza del piede e delle gambe. I cattivi risultati di un intervento dipendo quasi sempre da una cattiva indicazione, per cui i casi da operare vanno selezionati con grande cura, tenendo presente che col tempo esiste comunque la possibilità che l’ernia si formi nuovamente».

(Corriere della sera-Salute)

Nuova alleanza europea a sostegno di 100 milioni di pazienti con dolore cronico

Il 29 Novembre del 2011 è stata oggi ufficialmente presentata la Pain Alliance Europe (PAE) all’interno del Parlamento Europeo, alla presenza di numerosi esponenti dei principali partiti politici, di un rappresentante dell’ufficio del Commissario John Dalli e del Presidente dell’EFIC, la Federazione Europea delle Associazioni per lo Studio del Dolore. L’obiettivo della nuova Alleanza di Pazienti – un network di 18 Organizzazioni Non Governative in rappresentanza di 11 Paesi europei – è quello di sollecitare interesse e creare consapevolezza sul problema del dolore cronico, sia per quanto riguarda la mancanza di trattamenti adeguati per i pazienti che per il riconoscimento del dolore quale condizione che incide fortemente sulla qualità della vita. Per non parlare dei miliardi di euro che gravano ogni anno sull’economia europea, in termini di ore di lavoro perse a causa della malattia. Un Europeo su quattro soffre di dolore cronico severo, 100 milioni solo nei 27 Paesi dell’Unione Europea, la metà dei quali non riceve alcun trattamento o addirittura non viene presa sul serio. Mentre il dolore reumatico, ortopedico ed oncologico sono riconosciuti come patologie, con numerose associazioni che si battono perché venga riconosciuto il loro status di malattia e affinché i pazienti ricevano trattamenti adeguati, il dolore cronico come malattia è praticamente sconosciuto ai operatori della sanità e all’opinione pubblica in generale.

“Il sollievo dal dolore rappresenta un diritto fondamentale, riconosciuto come tale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Osservatorio sul rispetto dei Diritti Umani (Human Rights Watch), il che significa che gli Stati membri dell’Unione Europea dovrebbero considerare il trattamento del dolore cronico e l’accesso alle cure una priorità di salute pubblica”, sottolinea Hans Georg Kress, Presidente dell’EFIC – European Federation of IASP Chapters – che raggruppa le Associazioni Europee impegnate nella medicina del dolore, affiliate alla International Association for the Study of Pain, IASP (www.efic.org).

Le attività proposte sono le seguenti:

1. Riconoscere il dolore quale importante condizione che incide fortemente sulla qualità di vita dei pazienti, e inserirlo tra le priorità di salute pubblica dei sistemi sanitari nazionali;
2. Promuovere un ruolo attivo dei pazienti, dei loro familiari e dei care-giver in generale, attraverso la disponibilità delle informazioni e l’accesso alla diagnosi e al trattamento del dolore;
3. Accrescere la consapevolezza sull’impatto che il dolore cronico e il suo trattamento hanno a livello clinico, economico e sociale, sui pazienti, le loro famiglie, i care-giver, i datori di lavoro e i sistemi sanitari;
4. Accrescere la consapevolezza sull’importanza della prevenzione, della diagnosi e del trattamento del dolore tra i professionisti della sanità;
5. Incrementare la ricerca sul dolore (ricerca di base, clinica, epidemiologica) quale priorità nel quadro di riferimento dell’Unione Europea, e negli equivalenti programmi di ricerca a livello nazionale ed europeo, tenendo conto dell’impatto sociale del dolore e del peso del dolore cronico in ambito sanitario, sociale e occupazionale;
6. Costruire una piattaforma nell’ambito dell’UE per il confronto e la condivisione delle best practice tra gli Stati membri, relativamente al trattamento del dolore e al suo impatto sulla per la collettività;
7. Servirsi della piattaforma comune europea per realizzare un monitoraggio sul trattamento del dolore, sui servizi e sui risultati ottenuti, e fornire linee guida per armonizzare i livelli efficaci di trattamento del dolore, al fine di migliorare la qualità di vita dei cittadini europei.

Italia fanalino di coda nella prescrizione di oppiacei

L’Italia è prima in Europa per consumo di antidolorifici da banco, mentre è ultima in classifica quanto a prescrizioni di oppiacei. La coesistenza dei due aspetti significa automedicazione, sottostima e inadeguato trattamento del dolore. Significa inoltre assenza o carenza di esperti che seguano il paziente nel suo percorso di dolore cronico. Evidenzia l’uso di farmaci spesso non appropriati e quindi maggiori effetti collaterali e rischi. Tra il 2006 e il 2007 vi è stato nel nostro Paese un incremento nell’impiego degli oppiacei valutato intorno al 13%. Ma la posizione dell'Italia, nonostante tale aumento, è ancora in fondo alla classifica europea, mentre in Germania, Inghilterra e Svezia vengono impiegate dosi di oppiacei sette, otto volte superiori alle nostre. Questi dati mettono in evidenza alcune criticità che possono essere così schematizzate:
Scarsa considerazione medica del problema dolore
Assenza di cultura nell’impiego degli analgesici
Scarsa e superficiale valutazione dei risultati antalgici